martedì 30 dicembre 2008

Il bello, il buono e l'intelligente


Ci sono 3 forme di schiavitù nella società moderna che, a mio parere, non sono state dovutamente segnalate. Rispondono a questi 3 concetti: il bello, il buono e l'intelligente. Sono falsi miti che solo ci procurano un sacco di sofferenze. Dietro di essi si nasconde la più sottile delle manipolazioni imposta dalla società alla libera espressione dell'individuo e al pieno godimento del corpo. Ma andiamo per ordine.
Bello non vuol dire nulla. Il bello, come tutti sappiamo, è condizionato dal tempo in cui viviamo. Nella società dei consumi è una cosa, nel Rinascimento era un altra (vedi maniglie d'amore della Venere del Botticelli). Ne sono soprattutto schiave le donne, ma anche gli uomini, quest'ultimi spesso per via indiretta, ossia attraverso la vanità del loro ego: possono esibire la bella donna al loro fianco. Al bello va sostituito l'erotico. È molto più reale e tangibile. È la calda inspegabile attrazione che ci trascina verso un'altra persona. Quel sano desiderio che, credetemi, ha più a che vedere con gli odori che con l'aspetto fisico. Si chiamano feromoni.
Il buono. Il buono, come si sa, è spesso un frustrato: masochista con l'ossessione di non voler offendere nessuno ma sempre offendendo se stesso. In casi estremi, diventa l'insetto di Kafka. Diffidate dei buoni. I proverbi al rispetto non mancano. "Le vie dell'inferno sono lastricate di buone intenzioni". In genere dietro la finta bontà si nascondono le nostre debolezze. Le persone più pericolose, gli infami che ti pugnalano alla schiena sono gli stupidi, i deboli o i ben intenzionati. Dei tre, i più pericolosi sono di gran lunga gli ultimi. Alla bontà va sostituita l'autonomia, quindi. L'autenticità. Non dobbiamo essere buoni; dobbiamo essere noi stessi.
Da ultimi gli intelligenti. Intelligente... Cosa mai vorrà dire questa parola? Non c'è concetto più fuorviante. Può voler dire tutto o niente. Di certo non è l'intelligenza che serve nella vita, semmai il carattere. Ne sono soprattutto schiavi gli uomini, e alcune donne. In genere i più intelligenti sono i meno onesti, i furbi, o i più capaci nel costruire sofisticate giustificazioni a sostegno delle loro azioni riprovevoli, se sono intellettuali. Vedi razionalizzazione. All'intelligenza va sostituito il concetto di consapevolezza.
Allora non più bello, buono e intelligente. Ma erotico, autentico e consapevole.

domenica 28 dicembre 2008

IF, by pigiored




IF è la poesia in cui è sintetizzata al meglio l'etica di Rudyard Kipling. Un sonetto di 4 strofe in blank verse (10 sillabe) rima incatenata. Quando parti va come una preghiera. Nei primi del '900 era famosissima in ogni angolo dell'impero britannico. A scuola la facevano imparare a memoria ai ragazzi. L'autore aveva paura che cosí facendo avrebbero finito per odiarla. Per le sue posizioni politiche, Kipling fu sempre inviso a una certa cultura dogmatica di sinistra, che riteneva la morale di IF troppo individualista. Oggi IF non è più conosciuta quanto si meriterebbe. Ve la ripropongo qui, con il mio perfect british accent!

mercoledì 10 dicembre 2008

Two Quotes Each & An Anecdote

Chesterton:

"An inconvenience is only an adventure wrongly considered; an adventure is an inconvenience rightly considered"

"The more hopeless is the situation the more hopeful must be the man"

Shaw:

"The reasonable man adapts himself to the world; the unreasonable one persists in trying to adapt the world to himself. Therefore, all progress depends on the unreasonable man"

"You see things; and you say, 'Why?' But I dream things that never were; and I say, "Why not?""



Chesterton was a large man, standing 1.93 meters and weighing around 134 kilograms. His girth gave rise to a famous anecdote. On a meeting occasion he remarked to his friendly enemy George Bernard Shaw: 'To look at you, anyone would think there was a famine in England.' Shaw retorted: 'To look at you, anyone would think you caused it"

lunedì 8 dicembre 2008

lunedì 1 dicembre 2008

Cercasi Speranza disperatamente



Da un dibattito televisivo di Enzo Biagi; Pasolini, 1971